La maggior parte dei pipistrelli è in grado di percepire l’ambiente intorno a sé e di cacciare anche nel buio più completo, attraverso l’uso di un sofisticato “biosonar”. Questi animali emettono suoni di breve durata (da 2 a 80 millesimi di secondo ciascuno) con una frequenza elevata (da 10 a 200 impulsi al secondo) e ne analizzano costantemente l’eco di ritorno, formando nella loro mente una immagine “sonora” dettagliata dell’ambiente che li circonda.
Per questo scopo i pipistrelli utilizzano degli ultrasuoni, ovvero dei suoni di frequenza molto alta, superiori ai 20 kHz. In particolare, i suoni emessi variano, secondo la specie, da 11 a 120 kHz di frequenza, con molti pipistrelli italiani che emettono tra i 20 e i 60 kHz. Questa capacità dei chirotteri di muoversi e cacciare utilizzando gli ultrasuoni è chiamata ecolocalizzazione ed ha permesso a questi animali straordinari di sfruttare una nicchia ecologica preclusa alla maggior parte delle specie: il cielo notturno.
Gli ultrasuoni si formano nella laringe, come nell’uomo e vengono emessi attraverso la bocca o il naso. In particolare, i Vespertilionidi emettono gli ultrasuoni dalla bocca e sono in grado di valutare la distanza da un ostacolo calcolando la differenza di tempo tra l’emissione dell’ultrasuono e la ricezione della sua eco, un po’ come noi calcoliamo la profondità di un pozzo contando i secondi tra quando lanciamo un sasso al suo interno e quando lo udiamo toccare il fondo. I Rinolofidi emettono invece gli ultrasuoni dalle narici e localizzano gli ostacoli con un meccanismo basato sulla differenza di intensità tra l’eco ricevuta da un orecchio e quella ricevuta dall’altro.
Perché i pipistrelli utilizzano proprio gli ultrasuoni e non suoni normali per ecolocalizzare? I motivi sono diversi: